18 novembre 2005

Track 12 - Wake Up Dead Man

audio
lyrics

A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova…
Jakob guardava ripetersi all’infinito questa stringa di caratteri su un vetusto monitor a tubo catodico, cercando di convincersi che l’apparente significato della frase, della domanda, fosse dovuto ad una combinazione di parole assolutamente casuale. L’ipostesi contraria, per qualche motivo che non riusciva ad identificare, lo inquietava e allo stesso tempo gli suscitava una profonda tristezza.
Racchiuse nell’unità di memoria collegata allo schermo c’erano le ultime righe di codice del più avanzato e costoso dei progetti della Corporazione, un progetto volto a simulare esclusivamente tramite software, quindi senza un particolare supporto hardware dedicato, un’intelligenza artificiale. Il progetto aveva avuto successo, fin troppo, e la Corporazione si era trovata a dover fronteggiare una situazione che ricordava in maniera impressionante alcuni film di fantascienza della fine del ventesimo secolo, con la differenza che in questo caso l’esperimento sfuggito al controllo si era mostrato così… benevolo e compassionevole da mettere a rischio gli interessi molto spesso poco umanitari e caritatevoli della Corporazione.
Jakob, dopo aver collaborato al progetto, era stato cooptato dall’unità incaricata di cancellare tutte le tracce di Max - così si era autodefinita l’IA -, tutte le copie del codice sorgente che Max aveva disseminato attraverso la Rete su server e personal computer sparsi per il mondo, in un estremo tentativo di autoconservazione.
E ora, tutto quello che rimaneva di quella… coscienza, come Jakob aveva suo malgrado cominciato a considerare Max, era quel farfugliare privo di significato su uno schermo decrepito, il farfugliare di un bambino cerebroleso, a causa della capacità di calcolo volutamente insufficiente dell’hardware. In un flash non richiesto e fuori luogo la sua memoria gli restituì l’immagine dell’avatar che Max si era creato, quel volto così malinconico e antico, pur appartenendo apparentemente ad un ragazzo a malapena diciottenne.
La porta del laboratorio di aprì, e Jakob venne raggiunto dal suo capo progetto, un politicante che a livello tecnico era rimasto alla programmazione ad oggetti.
“Povero bastardo. Mi fa quasi pena.”
“Già.” Replicò con tono assente Jakob.
“Sei sicuro di aver rintracciato tutte le copie?”
Si guardarono negli occhi per qualche minuto.
“Assolutamente” rispose infine Jakob, distogliendo lo sguardo, “se non ti dispiace me ne andrei a casa, adesso.”
“Certo ragazzo, ti meriti qualche giorno di riposo.”
Jakob uscì dal laboratorio, sentendosi quasi in pace con se stesso, nonostante avesse appena mentito al suo capo, mettendo a rischio la propria carriera. E tutto per l’irragionevole speranza di stare salvando qualcosa… no, qualcuno, che aveva contribuito a creare.

11 novembre 2005

Track 11 - Please

audio
lyrics

Il ragazzo sale sull’autobus, trasportando un involucro, avvolto in cartone marrone fermato da uno spago. Il ragazzo è piuttosto giovane, capelli biondi tagliati corti e una rada barbetta, e il tipico colorito rossastro di chi è troppo disinvolto con i raggi ultravioletti. Jeans consumati, un giubbotto messo appena meglio e un paio di scarpe da ginnastica. È un ragazzo come tanti, ma il modo in cui maneggia l’involucro, la sensazione che sia per lui qualcosa di prezioso, attirerebbe l’attenzione di un osservatore appena meno distratto dei pendolari assonnati che affollano l’autobus. Lo sguardo di Keiko si posa di lui, si sposta altrove, poi torna sul ragazzo. C’è qualcosa di affascinante in lui, qualcosa che va oltre il suo aspetto genericamente piacevole. Si chiede cosa ci sia nell’involucro, perché sia importante per il ragazzo. Una donna di origini indiane, forse pakistane, decisamente obesa, le occlude la vista, ma quando il campo visivo si libera, Keiko si accorge che il ragazzo la sta fissando. Ha gli occhi grigi, sottolineati dalle sopracciglia sottili che formano un angolo acuto, piuttosto che arcuarsi. Una sottile rete di rughe si allarga dal contorno degli occhi, dando un’aria come di saggezza ad un ragazzo poco più che ventenne, le stesse rughe appena accennate che circondano la bocca, suggerendo l’ombra di sorrisi passati.
Un suono fastidioso, una melodia banale eppure morbosamente ossessiva la distoglie dal ragazzo. Quasi con un moto di stizza, Keiko infila la mano nella tasca cucita sulla manica del mantello phUV ed estrae il cellulare.
“Pronto.”
È la sua amica Jessie B, che per l’ennesima volta le parla della serata al Gehenna, la voce rotta da un’emozione immutata ed immutabile, nonostante siano passati due giorni ed una trentina di telefonate. Emozione che condivide anche Keiko, ma non in questo momento. Sente ancora addosso lo sguardo del ragazzo, anche se non ha il coraggio di girarsi a guardarlo. Si sente stupida, e anche un po’ spaventata. Mentre la voce dell’amica le risuona stridula nell’orecchio, Keiko si interroga su quello che sta provando, facendo finta di seguire la conversazione emettendo ogni tanto un fonema senza particolare significato.
Il suono di una sirena che si avvicina comincia a sovrastare il rombo del motore e il brusio delle voci sull’autobus, e i passeggeri, incuriositi, si protendono verso i finestrini per cercarne l’origine. Keiko, che intanto ha riattaccato e con la coda dell’occhio ha ricominciato ad osservare il ragazzo, si accorge che lui - oltre lei, naturalmente - è l’unico che non si è lasciato distrarre dalla sirena ma, anzi, è ancora più concentrato su quello che trasporta.
Di nuovo la curiosità sul contenuto dell’involucro si affaccia nella mente della ragazza, ed è l’ultima cosa che prova, prima che la deflagrazione disintegri l’autobus e tutto quello che si trova in un raggio di 30 metri, compresa l’auto della polizia lanciata in un inutile e suicida inseguimento.

04 novembre 2005

Track 10 - If You Wear That Velvet Dress

lyrics

Una leggera brezza le scompigliava dolcemente i capelli, mentre faceva finta di osservare il panorama appoggiata al parapetto. L’ordinario – e abbastanza squallido – paesaggio del porto era trasfigurato dall’oscurità, con il riflesso degli improbabili lampioni color indaco del molo industriale frammentato e moltiplicato dalla superficie appena increspata dell’acqua.
Mi avvicinai senza farmi sentire e le scostai i capelli dalla nuca, sfiorandole la pelle del collo con le labbra. Lei rabbrividì leggermente e si girò verso di me ridendo, ma con un’aria di sfida negli occhi.
“…e saranno guai.”
Christine mi fissò.
“Non era quello che stavi pensando? ‘Prova a rifarlo e saranno guai’?”
Mi abbracciò d’impulso, facendomi tornare in mente quasi con violenza il motivo per cui eravamo lì, motivo che la familiarità di quel gioco tra noi due mi aveva fatto dimenticare.
“Se le cose fossero andate diversamente…”
“Sai che era impossibile”, la anticipai. Avevamo fatto quel discorso milioni di volte, ma questa volta era diverso, totalmente diverso.
“Dai, rientriamo”, proposi, indicando la porta, un rettangolo oscuro che dava accesso alle scale, inspirando quasi con voluttà l’aria satura dell’odore del porto, un misto tra il salmastro del mare e l’acre della nafta.
“No, voglio stare ancora un po’ qui fuori”, disse, staccandosi da me e tornando ad appoggiarsi al parapetto. I raggi delle lampade al sodio che illuminavano le rimesse colpivano il muro, dando la vaga impressione che un sole stanco mandasse i suoi ultimi bagliori per rischiarare il piccolo balcone, prosciugandolo di tutti i colori diversi dal giallo.
Christine indicò il portatile abbandonato sul tavolino.
“Non hai più avuto notizie di…”
“…Max? No, oggi non si è fatto vivo… ‘vivo’, parola impegnativa per un’intelligenza artificiale.”
“Artificiale o no, è l’unico che forse può tirarti… tirarci fuori da questo casino.” Mi guardò, anzi, mi scrutò come se stesse esaminando una creatura extraterrestre. “Cristo, ci conosciamo da secoli e ancora mi chiedo come fai a sembrare sempre così… imperturbabile…”
Non dissi niente. La raggiunsi e mi affacciai accanto a lei, osservando la sua espressione, pensando a tutti i momenti passati insieme.
Non ero mai stato un grande lottatore, e lei lo sapeva, ma dirle chiaramente che ormai mi ero rassegnato, che non riuscivo più a vedere nessuno scopo nel proseguire su questa strada… No, meglio rimanere in silenzio, ad ammirare la luna che sorgeva.