28 ottobre 2005

Track 09 - The Playboy Mansion

lyrics

L'edificio era adagiato in mezzo ai relitti di un'epoca industriale
dimenticata. Assomigliava ad un mostro preistorico abbattuto da una calamità naturale,
ma ancora vivo e pericoloso, seppur mortalmente ferito. In un'era di
disgregazione e parcellizzazione, l'idea stessa dell'edificio era
anacronistica, come quella dei mainframe, eppure manteneva intatte le proprie
funzionalità, nonostante l'apparente aria di decadenza e le visibili crepe
nel cemento armato grigiastro che costituiva la sua corazza esterna, butterata da
decenni di piogge acide e dall’incessante bombardamento dei raggi ultravioletti. Di giorno sembrava ingannevolmente innocuo, ma di notte l’attività che ferveva al suo interno lasciava sfuggire qualche indizio su di sé. Nel buio della zona in rovina, illuminata sporadicamente da qualche lampione non ancora fulminato, i neon sopra gli ingressi situati ai vari livelli della struttura la facevano sembrare un’astronave atterrata in una terra di nessuno, che poco o niente rivelava riguardo ai suoi occupanti.
Solo guardando attraverso un binocolo, si poteva cogliere ad intervalli regolari l’immagine di un autocarro che usciva, come in quel momento, da una rimessa al livello della strada, un nastro di asfalto crepato e invaso dalle erbacce. Immediatamente una saracinesca chiuse l’ingresso, ma non abbastanza in fretta da non farmi notare l’uomo in uniforme armato con una mitraglietta, apparentemente un uzi, modello antiquato ma sempre funzionale e affidabile. Riposi il binocolo nel marsupio, e voltando la schiena all’edificio mi diressi verso l’auto.
Mio fratello era appoggiato alla portiera, vestito come sempre, jeans sbiaditi e un giubbotto di un tessuto appena un po’ meno consumato e scolorito.
“Ciao sorellina”, un sorriso triste, come la voce.
“A quanto pare non dovrò violare una proprietà privata sorvegliata da uomini armati e chissà cos’altro, per parlare con te”, il mio tono una copia quasi perfetta del suo.
“Ti avevo chiesto, ti avevo pregato di non cercarmi…”
“…per la mia sicurezza, lo so. Ma cosa dovrei fare, far finta di niente? Far finta che tu non esista, che tu non ti sia messo con… quelli?”
Di nuovo il sorriso: “Tu non capisci”
“Eh no, certo che non capisco! Non capisco come tu possa aver messo a rischio la tua vita, e la mia, e quella di non so quante altre persone, per unirti ad un gruppo di pericolosi fanatici! Rob, è troppo tardi per salvare il mondo, accidenti!”
Si avvicinò a me, e mi accarezzò una guancia.
“Forse hai ragione, ma da quando sono con loro, riesco di nuovo a guardarmi nello specchio.”
“Cosa pensi di fare, adesso?”
Altro sorriso. “Segreto”
In silenzio, com’era venuto, si allontanò diretto all’edificio. Ancora non sapevo che non l’avrei più rivisto.

21 ottobre 2005

Track 08 - Miami

lyrics

“Che cazzo stiamo facendo qui?”
Le pareti azzurre della piscina svuotata risultano quasi sgradevoli da guardare, e in netto contrasto con l’aria afosa che si respira nell’edificio chiuso per lavori.
“Ho detto, che cazzo stiamo facendo qui?”
L’unica soluzione di continuità dell’azzurro è dovuta ai poster pornografici attaccati dal custode, una carrellata di corpi nudi chiaramente ritoccati chirurgicamente, ritratti in pose degradanti.
“Se stai zitto per un minuto, forse riesco a concludere qualcosa.”
I teloni di plastica semitrasparente che sostituiscono le vetrate pendono immobili, riverberando la luce del sole, ancora basso sull’orizzonte. Un’impalcatura crea figure d’ombra.
“Se sapessi cosa stai cercando, forse starei zitto, e forse potrei addirittura aiutarti.”
Dagli spogliatoi arrivano i suoni provocati da un barbone che è riuscito ad intrufolarsi nella piscina, disturbato dalle voci provenienti dalla vasca olimpionica.
“L’ultima intercettazione sembrava indicare questo posto.”
I rumori che infastidiscono il barbone si spostano verso gli uffici, completamente sventrati. La luce cruda di un flash rivela le controsoffittature disassemblate, i divisori accatastati contro un muro portante, i cavi che escono da tutte le parti.
“Uh uh, immagino che il nostro contatto abbia usato questi terminali di rete, vero? Magari mentre conversava amabilmente con un Digimon…”
Un topo corre rasente al muro, emettendo un leggero squittio, sovrastato dallo squillo di un cellulare.
“Pare che questo sia il posto sbagliato.”
Il rumore di passi torna verso la vasca olimpionica, attraversa l’atrio e scompare, permettendo al barbone di ripiombare nel sonno etilico.
All’esterno la temperatura è appena sopportabile, e il sole comincia ad essere pericoloso.
“Allora?”
Anche se il traffico non è ancora quello di punta, in lontananza si sente la sirena di una pattuglia della polizia stradale, accompagnata dai rotori di un elicottero, il primo inseguimento della giornata.
“Il nostro amico… Max… è furbo. Ma non abbastanza. La trasmissione è avvenuta sulla spiaggia, con un collegamento satellitare.”
Il frastuono dell’inseguimento si avvicina. I pochi passanti, imbacuccati nei mantelli phUV, cercano un riparo per non essere colpiti da un proiettile vagante. Una ragazza si toglie il cappuccio e si sistema i capelli, come se volesse essere ripresa dalle telecamere dell’elicottero.
“La spiaggia. Cristo. Non ci sarà più niente. Anzi, ci sarà anche troppo. Non lo beccheremo mai.”
Uno scuolabus giallo, pieno di ragazzini delle medie, invade il marciapiede mancando per un soffio un gruppo di persone. Dietro, un’auto sportiva sbanda quasi fuori controllo, tallonata da vicino da due pattuglie della polizia e dall’elicottero di Canale 6.
“Prima di tutto togliamoci da questo casino.”
Un furgone nero, probabilmente con la carrozzeria rinforzata, parte sgasando col tipico sibilo dei motori ceramici, inserendosi nella scia dell’inseguimento.
Dallo scuolabus, ancora spaventato dalla brusca manovra, Samy guarda partire sulle sue tracce, senza vederli realmente, i due investigatori incaricati di trovarlo.

14 ottobre 2005

Track 07 - Gone

lyrics

L’ora del consueto appuntamento era finalmente arrivata. Se Samy fosse stato più maturo, probabilmente avrebbe cominciato a provare una crescente inquietudine riguardo a quello che stava diventando un rapporto di dipendenza. Ma Samy aveva solo 13 anni, e l’unico pensiero che gli passava per la testa era che non vedeva l’ora che arrivasse il momento stabilito per il collegamento.
Come le altre volte si era intrufolato attraverso il minuscolo buco nella recinzione, aveva camminato sulla striscia di cemento su cui una volta ragazzi appena più grandi di lui avevano corso, pattinato, erano andati in bicicletta, ed era arrivato sulla spiaggia, in vista del mare. Di fronte a lui il sole stava tramontando, accendendo l’orizzonte di rossi e arancioni, e a Samy tornò in mente la lezione di quella mattina, quando l’insegnante aveva spiegato che a causa dell’inquinamento atmosferico il caratteristico colore azzurro del cielo aveva iniziato a sfumare verso l’attuale bianco sporco, e che il fenomeno era visibile soprattutto all’alba e al tramonto, quando i raggi del sole dovevano attraversare uno strato maggiore di polveri.
Le onde si infrangevano sulla battigia, e nonostante tutto la brezza conservava ancora una traccia di odore salmastro e di frescura. Samy respirò a pieni polmoni, seduto sulla sabbia, col notebook aperto sulle gambe incrociate, l’attesa stemperata dalla sensazione di pace che gli comunicava il suono della risacca. Con gesti tranquilli, automatici, infilò l’i-glove e il visore. Delicatamente cominciarono a formarglisi sulla retina delle immagini semplici e leggermente sfocate, per abituare il suo cervello alla nuova realtà visiva sintetica, mentre l’i-glove prendeva possesso dei recettori della sua mano. Con la mano libera accese il trasmettitore satellitare e lanciò dalla tastiera la connessione.
La stanza era ancora vuota, Max era in ritardo o, più probabilmente, lui era in anticipo. Strano l’ambiente virtuale che aveva scelto Max, il giorno prima Samy aveva controllato e aveva scoperto che si trattava della sala di controllo missioni spaziali della NASA, nella seconda metà del ventesimo secolo. Sempre meglio dei paradisi biogenetici a falsi colori che andavano di moda in quel momento…
“Ciao Samy.”
L’avatar che Max si era scelto era un ragazzo di circa 18 anni, molto magro, con viso affilato, occhiali da vista – altro arcaismo – e occhi, castani come i capelli, dolci e malinconici. Impossibile dire se l’avatar rispecchiasse il reale aspetto di Max, e quanto. Per esempio Samy aveva invecchiato i propri lineamenti di qualche anno, li aveva incrociati con quelli di alcuni attori famosi, e per finire li aveva stilizzati secondo i canoni dei fumetti manga.
“Ciao Max, come…”, Samy si bloccò, l’avatar di Max si stava disgregando, mentre una smorfia di dolore gli attraversava il viso.
“Samy, non ho molto tempo. Guarda sul tuo hard…”
Max scomparve e la stanza esplose, i pixel che ne costituivano la trama sostituiti da minacciose scritte di pericolo lampeggianti su uno sfondo di rumore bianco. Samy si strappò il visore dagli occhi e praticamente sradicò l’antenna satellitare dal notebook, preso dal panico. In tutta fretta corse via, per il momento dimentico delle ultime parole di Max, accecato dalle lacrime.

07 ottobre 2005

Track 06 - Last Night On Earth

lyrics

La strada era intasata dal traffico dell’ora di punta, i marciapiedi
strabordanti di uomini d’affari appena usciti dagli uffici, chi a caccia di
un taxi, chi diretto verso il proprio veicolo o verso la fermata più vicina
della metropolitana. Anche se il sole non era ancora tramontato i raggi
dorati che penetravano tra i grattacieli, resi visibili dal pulviscolo in
sospensione, erano filtrati dagli strati bassi dell’atmosfera tanto da
risultare innocui. Il penetrante odore di ozono, ossidi di azoto,
idrocarburi incombusti e asfalto surriscaldato riusciva a oltrepassare anche
i filtri nasali che molti indossavano.
La folla che inondava i marciapiedi costituiva un perfetto esempio del moto
di un fluido viscoso, con le sue variazioni di densità e di velocità, con i
suoi vortici. Tra i tanti, uno era causato da Shelly. Pur imbrigliata in un
tailleur dal taglio classico, quasi severo, la sua bellezza non perdeva la
sua forza d’attrazione, calamitando l’attenzione delle persone circostanti.
Anche lei era appena uscita dall’ufficio, una lunga giornata in cui non
aveva combinato niente, i suoi pensieri lontani mille miglia dalle
scartoffie, così come in quel momento era del tutto incurante di quello che
la circondava.
Sempre soprapensiero si inserì in una corrente che veniva inghiottita dalle
scale di una stazione della metropolitana. L’odore del traffico fu
sostituito da quello dell’olio lubrificante, il pavimento tremava a
intervalli regolari per la vibrazione dei treni delle linee che passavano
sopra o sotto, le pareti tappezzate di schermi ultrapiatti a grandezza
naturale che cercavano di infrangere la barriera di indifferenza protettiva
delle persone che aspettavano sulla banchina.
All’arrivo del suo treno Shelly tornò a focalizzare la sua attenzione sul
mondo esterno e si accorse che una ragazza sconosciuta la stava fissando
intensamente.
Shelly trattenne il respiro, finché non si rese conto che quella ragazza non
era altro che il suo viso riflesso sul finestrino del treno.
Non era la prima volta che le succedeva, quel giorno. Non si era
riconosciuta nello specchio appena uscita dalla doccia, la mattina. Non si
era riconosciuta nella foto che una sua amica le aveva mandato con la posta
elettronica. Non si era riconosciuta nell’immagine ripresa da una
videocamera e mostrata su uno schermo nel centro commerciale dove aveva
pranzato.
Salì sul treno, la folla la stringeva da tutti i lati, anche se non si fosse
tenuta al corrimano non avrebbe rischiato di cadere. Il cellulare cominciò a
vibrare nella borsetta. Con qualche contorcimento riuscì ad estrarlo e a
rispondere, all’orecchio le risuonò la voce della segretaria del chirurgo
estetico a cui si era rivolta, che le ricordava la visita di controllo
fissata per il giorno dopo. Shelly ringraziò e chiuse la comunicazione,
tornando a fissare il buio della galleria oltre il finestrino, la sua
fermata passata da un pezzo.