18 novembre 2005

Track 12 - Wake Up Dead Man

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A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova il buio? A che distanza si trova…
Jakob guardava ripetersi all’infinito questa stringa di caratteri su un vetusto monitor a tubo catodico, cercando di convincersi che l’apparente significato della frase, della domanda, fosse dovuto ad una combinazione di parole assolutamente casuale. L’ipostesi contraria, per qualche motivo che non riusciva ad identificare, lo inquietava e allo stesso tempo gli suscitava una profonda tristezza.
Racchiuse nell’unità di memoria collegata allo schermo c’erano le ultime righe di codice del più avanzato e costoso dei progetti della Corporazione, un progetto volto a simulare esclusivamente tramite software, quindi senza un particolare supporto hardware dedicato, un’intelligenza artificiale. Il progetto aveva avuto successo, fin troppo, e la Corporazione si era trovata a dover fronteggiare una situazione che ricordava in maniera impressionante alcuni film di fantascienza della fine del ventesimo secolo, con la differenza che in questo caso l’esperimento sfuggito al controllo si era mostrato così… benevolo e compassionevole da mettere a rischio gli interessi molto spesso poco umanitari e caritatevoli della Corporazione.
Jakob, dopo aver collaborato al progetto, era stato cooptato dall’unità incaricata di cancellare tutte le tracce di Max - così si era autodefinita l’IA -, tutte le copie del codice sorgente che Max aveva disseminato attraverso la Rete su server e personal computer sparsi per il mondo, in un estremo tentativo di autoconservazione.
E ora, tutto quello che rimaneva di quella… coscienza, come Jakob aveva suo malgrado cominciato a considerare Max, era quel farfugliare privo di significato su uno schermo decrepito, il farfugliare di un bambino cerebroleso, a causa della capacità di calcolo volutamente insufficiente dell’hardware. In un flash non richiesto e fuori luogo la sua memoria gli restituì l’immagine dell’avatar che Max si era creato, quel volto così malinconico e antico, pur appartenendo apparentemente ad un ragazzo a malapena diciottenne.
La porta del laboratorio di aprì, e Jakob venne raggiunto dal suo capo progetto, un politicante che a livello tecnico era rimasto alla programmazione ad oggetti.
“Povero bastardo. Mi fa quasi pena.”
“Già.” Replicò con tono assente Jakob.
“Sei sicuro di aver rintracciato tutte le copie?”
Si guardarono negli occhi per qualche minuto.
“Assolutamente” rispose infine Jakob, distogliendo lo sguardo, “se non ti dispiace me ne andrei a casa, adesso.”
“Certo ragazzo, ti meriti qualche giorno di riposo.”
Jakob uscì dal laboratorio, sentendosi quasi in pace con se stesso, nonostante avesse appena mentito al suo capo, mettendo a rischio la propria carriera. E tutto per l’irragionevole speranza di stare salvando qualcosa… no, qualcuno, che aveva contribuito a creare.

11 novembre 2005

Track 11 - Please

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Il ragazzo sale sull’autobus, trasportando un involucro, avvolto in cartone marrone fermato da uno spago. Il ragazzo è piuttosto giovane, capelli biondi tagliati corti e una rada barbetta, e il tipico colorito rossastro di chi è troppo disinvolto con i raggi ultravioletti. Jeans consumati, un giubbotto messo appena meglio e un paio di scarpe da ginnastica. È un ragazzo come tanti, ma il modo in cui maneggia l’involucro, la sensazione che sia per lui qualcosa di prezioso, attirerebbe l’attenzione di un osservatore appena meno distratto dei pendolari assonnati che affollano l’autobus. Lo sguardo di Keiko si posa di lui, si sposta altrove, poi torna sul ragazzo. C’è qualcosa di affascinante in lui, qualcosa che va oltre il suo aspetto genericamente piacevole. Si chiede cosa ci sia nell’involucro, perché sia importante per il ragazzo. Una donna di origini indiane, forse pakistane, decisamente obesa, le occlude la vista, ma quando il campo visivo si libera, Keiko si accorge che il ragazzo la sta fissando. Ha gli occhi grigi, sottolineati dalle sopracciglia sottili che formano un angolo acuto, piuttosto che arcuarsi. Una sottile rete di rughe si allarga dal contorno degli occhi, dando un’aria come di saggezza ad un ragazzo poco più che ventenne, le stesse rughe appena accennate che circondano la bocca, suggerendo l’ombra di sorrisi passati.
Un suono fastidioso, una melodia banale eppure morbosamente ossessiva la distoglie dal ragazzo. Quasi con un moto di stizza, Keiko infila la mano nella tasca cucita sulla manica del mantello phUV ed estrae il cellulare.
“Pronto.”
È la sua amica Jessie B, che per l’ennesima volta le parla della serata al Gehenna, la voce rotta da un’emozione immutata ed immutabile, nonostante siano passati due giorni ed una trentina di telefonate. Emozione che condivide anche Keiko, ma non in questo momento. Sente ancora addosso lo sguardo del ragazzo, anche se non ha il coraggio di girarsi a guardarlo. Si sente stupida, e anche un po’ spaventata. Mentre la voce dell’amica le risuona stridula nell’orecchio, Keiko si interroga su quello che sta provando, facendo finta di seguire la conversazione emettendo ogni tanto un fonema senza particolare significato.
Il suono di una sirena che si avvicina comincia a sovrastare il rombo del motore e il brusio delle voci sull’autobus, e i passeggeri, incuriositi, si protendono verso i finestrini per cercarne l’origine. Keiko, che intanto ha riattaccato e con la coda dell’occhio ha ricominciato ad osservare il ragazzo, si accorge che lui - oltre lei, naturalmente - è l’unico che non si è lasciato distrarre dalla sirena ma, anzi, è ancora più concentrato su quello che trasporta.
Di nuovo la curiosità sul contenuto dell’involucro si affaccia nella mente della ragazza, ed è l’ultima cosa che prova, prima che la deflagrazione disintegri l’autobus e tutto quello che si trova in un raggio di 30 metri, compresa l’auto della polizia lanciata in un inutile e suicida inseguimento.

04 novembre 2005

Track 10 - If You Wear That Velvet Dress

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Una leggera brezza le scompigliava dolcemente i capelli, mentre faceva finta di osservare il panorama appoggiata al parapetto. L’ordinario – e abbastanza squallido – paesaggio del porto era trasfigurato dall’oscurità, con il riflesso degli improbabili lampioni color indaco del molo industriale frammentato e moltiplicato dalla superficie appena increspata dell’acqua.
Mi avvicinai senza farmi sentire e le scostai i capelli dalla nuca, sfiorandole la pelle del collo con le labbra. Lei rabbrividì leggermente e si girò verso di me ridendo, ma con un’aria di sfida negli occhi.
“…e saranno guai.”
Christine mi fissò.
“Non era quello che stavi pensando? ‘Prova a rifarlo e saranno guai’?”
Mi abbracciò d’impulso, facendomi tornare in mente quasi con violenza il motivo per cui eravamo lì, motivo che la familiarità di quel gioco tra noi due mi aveva fatto dimenticare.
“Se le cose fossero andate diversamente…”
“Sai che era impossibile”, la anticipai. Avevamo fatto quel discorso milioni di volte, ma questa volta era diverso, totalmente diverso.
“Dai, rientriamo”, proposi, indicando la porta, un rettangolo oscuro che dava accesso alle scale, inspirando quasi con voluttà l’aria satura dell’odore del porto, un misto tra il salmastro del mare e l’acre della nafta.
“No, voglio stare ancora un po’ qui fuori”, disse, staccandosi da me e tornando ad appoggiarsi al parapetto. I raggi delle lampade al sodio che illuminavano le rimesse colpivano il muro, dando la vaga impressione che un sole stanco mandasse i suoi ultimi bagliori per rischiarare il piccolo balcone, prosciugandolo di tutti i colori diversi dal giallo.
Christine indicò il portatile abbandonato sul tavolino.
“Non hai più avuto notizie di…”
“…Max? No, oggi non si è fatto vivo… ‘vivo’, parola impegnativa per un’intelligenza artificiale.”
“Artificiale o no, è l’unico che forse può tirarti… tirarci fuori da questo casino.” Mi guardò, anzi, mi scrutò come se stesse esaminando una creatura extraterrestre. “Cristo, ci conosciamo da secoli e ancora mi chiedo come fai a sembrare sempre così… imperturbabile…”
Non dissi niente. La raggiunsi e mi affacciai accanto a lei, osservando la sua espressione, pensando a tutti i momenti passati insieme.
Non ero mai stato un grande lottatore, e lei lo sapeva, ma dirle chiaramente che ormai mi ero rassegnato, che non riuscivo più a vedere nessuno scopo nel proseguire su questa strada… No, meglio rimanere in silenzio, ad ammirare la luna che sorgeva.

28 ottobre 2005

Track 09 - The Playboy Mansion

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L'edificio era adagiato in mezzo ai relitti di un'epoca industriale
dimenticata. Assomigliava ad un mostro preistorico abbattuto da una calamità naturale,
ma ancora vivo e pericoloso, seppur mortalmente ferito. In un'era di
disgregazione e parcellizzazione, l'idea stessa dell'edificio era
anacronistica, come quella dei mainframe, eppure manteneva intatte le proprie
funzionalità, nonostante l'apparente aria di decadenza e le visibili crepe
nel cemento armato grigiastro che costituiva la sua corazza esterna, butterata da
decenni di piogge acide e dall’incessante bombardamento dei raggi ultravioletti. Di giorno sembrava ingannevolmente innocuo, ma di notte l’attività che ferveva al suo interno lasciava sfuggire qualche indizio su di sé. Nel buio della zona in rovina, illuminata sporadicamente da qualche lampione non ancora fulminato, i neon sopra gli ingressi situati ai vari livelli della struttura la facevano sembrare un’astronave atterrata in una terra di nessuno, che poco o niente rivelava riguardo ai suoi occupanti.
Solo guardando attraverso un binocolo, si poteva cogliere ad intervalli regolari l’immagine di un autocarro che usciva, come in quel momento, da una rimessa al livello della strada, un nastro di asfalto crepato e invaso dalle erbacce. Immediatamente una saracinesca chiuse l’ingresso, ma non abbastanza in fretta da non farmi notare l’uomo in uniforme armato con una mitraglietta, apparentemente un uzi, modello antiquato ma sempre funzionale e affidabile. Riposi il binocolo nel marsupio, e voltando la schiena all’edificio mi diressi verso l’auto.
Mio fratello era appoggiato alla portiera, vestito come sempre, jeans sbiaditi e un giubbotto di un tessuto appena un po’ meno consumato e scolorito.
“Ciao sorellina”, un sorriso triste, come la voce.
“A quanto pare non dovrò violare una proprietà privata sorvegliata da uomini armati e chissà cos’altro, per parlare con te”, il mio tono una copia quasi perfetta del suo.
“Ti avevo chiesto, ti avevo pregato di non cercarmi…”
“…per la mia sicurezza, lo so. Ma cosa dovrei fare, far finta di niente? Far finta che tu non esista, che tu non ti sia messo con… quelli?”
Di nuovo il sorriso: “Tu non capisci”
“Eh no, certo che non capisco! Non capisco come tu possa aver messo a rischio la tua vita, e la mia, e quella di non so quante altre persone, per unirti ad un gruppo di pericolosi fanatici! Rob, è troppo tardi per salvare il mondo, accidenti!”
Si avvicinò a me, e mi accarezzò una guancia.
“Forse hai ragione, ma da quando sono con loro, riesco di nuovo a guardarmi nello specchio.”
“Cosa pensi di fare, adesso?”
Altro sorriso. “Segreto”
In silenzio, com’era venuto, si allontanò diretto all’edificio. Ancora non sapevo che non l’avrei più rivisto.

21 ottobre 2005

Track 08 - Miami

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“Che cazzo stiamo facendo qui?”
Le pareti azzurre della piscina svuotata risultano quasi sgradevoli da guardare, e in netto contrasto con l’aria afosa che si respira nell’edificio chiuso per lavori.
“Ho detto, che cazzo stiamo facendo qui?”
L’unica soluzione di continuità dell’azzurro è dovuta ai poster pornografici attaccati dal custode, una carrellata di corpi nudi chiaramente ritoccati chirurgicamente, ritratti in pose degradanti.
“Se stai zitto per un minuto, forse riesco a concludere qualcosa.”
I teloni di plastica semitrasparente che sostituiscono le vetrate pendono immobili, riverberando la luce del sole, ancora basso sull’orizzonte. Un’impalcatura crea figure d’ombra.
“Se sapessi cosa stai cercando, forse starei zitto, e forse potrei addirittura aiutarti.”
Dagli spogliatoi arrivano i suoni provocati da un barbone che è riuscito ad intrufolarsi nella piscina, disturbato dalle voci provenienti dalla vasca olimpionica.
“L’ultima intercettazione sembrava indicare questo posto.”
I rumori che infastidiscono il barbone si spostano verso gli uffici, completamente sventrati. La luce cruda di un flash rivela le controsoffittature disassemblate, i divisori accatastati contro un muro portante, i cavi che escono da tutte le parti.
“Uh uh, immagino che il nostro contatto abbia usato questi terminali di rete, vero? Magari mentre conversava amabilmente con un Digimon…”
Un topo corre rasente al muro, emettendo un leggero squittio, sovrastato dallo squillo di un cellulare.
“Pare che questo sia il posto sbagliato.”
Il rumore di passi torna verso la vasca olimpionica, attraversa l’atrio e scompare, permettendo al barbone di ripiombare nel sonno etilico.
All’esterno la temperatura è appena sopportabile, e il sole comincia ad essere pericoloso.
“Allora?”
Anche se il traffico non è ancora quello di punta, in lontananza si sente la sirena di una pattuglia della polizia stradale, accompagnata dai rotori di un elicottero, il primo inseguimento della giornata.
“Il nostro amico… Max… è furbo. Ma non abbastanza. La trasmissione è avvenuta sulla spiaggia, con un collegamento satellitare.”
Il frastuono dell’inseguimento si avvicina. I pochi passanti, imbacuccati nei mantelli phUV, cercano un riparo per non essere colpiti da un proiettile vagante. Una ragazza si toglie il cappuccio e si sistema i capelli, come se volesse essere ripresa dalle telecamere dell’elicottero.
“La spiaggia. Cristo. Non ci sarà più niente. Anzi, ci sarà anche troppo. Non lo beccheremo mai.”
Uno scuolabus giallo, pieno di ragazzini delle medie, invade il marciapiede mancando per un soffio un gruppo di persone. Dietro, un’auto sportiva sbanda quasi fuori controllo, tallonata da vicino da due pattuglie della polizia e dall’elicottero di Canale 6.
“Prima di tutto togliamoci da questo casino.”
Un furgone nero, probabilmente con la carrozzeria rinforzata, parte sgasando col tipico sibilo dei motori ceramici, inserendosi nella scia dell’inseguimento.
Dallo scuolabus, ancora spaventato dalla brusca manovra, Samy guarda partire sulle sue tracce, senza vederli realmente, i due investigatori incaricati di trovarlo.

14 ottobre 2005

Track 07 - Gone

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L’ora del consueto appuntamento era finalmente arrivata. Se Samy fosse stato più maturo, probabilmente avrebbe cominciato a provare una crescente inquietudine riguardo a quello che stava diventando un rapporto di dipendenza. Ma Samy aveva solo 13 anni, e l’unico pensiero che gli passava per la testa era che non vedeva l’ora che arrivasse il momento stabilito per il collegamento.
Come le altre volte si era intrufolato attraverso il minuscolo buco nella recinzione, aveva camminato sulla striscia di cemento su cui una volta ragazzi appena più grandi di lui avevano corso, pattinato, erano andati in bicicletta, ed era arrivato sulla spiaggia, in vista del mare. Di fronte a lui il sole stava tramontando, accendendo l’orizzonte di rossi e arancioni, e a Samy tornò in mente la lezione di quella mattina, quando l’insegnante aveva spiegato che a causa dell’inquinamento atmosferico il caratteristico colore azzurro del cielo aveva iniziato a sfumare verso l’attuale bianco sporco, e che il fenomeno era visibile soprattutto all’alba e al tramonto, quando i raggi del sole dovevano attraversare uno strato maggiore di polveri.
Le onde si infrangevano sulla battigia, e nonostante tutto la brezza conservava ancora una traccia di odore salmastro e di frescura. Samy respirò a pieni polmoni, seduto sulla sabbia, col notebook aperto sulle gambe incrociate, l’attesa stemperata dalla sensazione di pace che gli comunicava il suono della risacca. Con gesti tranquilli, automatici, infilò l’i-glove e il visore. Delicatamente cominciarono a formarglisi sulla retina delle immagini semplici e leggermente sfocate, per abituare il suo cervello alla nuova realtà visiva sintetica, mentre l’i-glove prendeva possesso dei recettori della sua mano. Con la mano libera accese il trasmettitore satellitare e lanciò dalla tastiera la connessione.
La stanza era ancora vuota, Max era in ritardo o, più probabilmente, lui era in anticipo. Strano l’ambiente virtuale che aveva scelto Max, il giorno prima Samy aveva controllato e aveva scoperto che si trattava della sala di controllo missioni spaziali della NASA, nella seconda metà del ventesimo secolo. Sempre meglio dei paradisi biogenetici a falsi colori che andavano di moda in quel momento…
“Ciao Samy.”
L’avatar che Max si era scelto era un ragazzo di circa 18 anni, molto magro, con viso affilato, occhiali da vista – altro arcaismo – e occhi, castani come i capelli, dolci e malinconici. Impossibile dire se l’avatar rispecchiasse il reale aspetto di Max, e quanto. Per esempio Samy aveva invecchiato i propri lineamenti di qualche anno, li aveva incrociati con quelli di alcuni attori famosi, e per finire li aveva stilizzati secondo i canoni dei fumetti manga.
“Ciao Max, come…”, Samy si bloccò, l’avatar di Max si stava disgregando, mentre una smorfia di dolore gli attraversava il viso.
“Samy, non ho molto tempo. Guarda sul tuo hard…”
Max scomparve e la stanza esplose, i pixel che ne costituivano la trama sostituiti da minacciose scritte di pericolo lampeggianti su uno sfondo di rumore bianco. Samy si strappò il visore dagli occhi e praticamente sradicò l’antenna satellitare dal notebook, preso dal panico. In tutta fretta corse via, per il momento dimentico delle ultime parole di Max, accecato dalle lacrime.

07 ottobre 2005

Track 06 - Last Night On Earth

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La strada era intasata dal traffico dell’ora di punta, i marciapiedi
strabordanti di uomini d’affari appena usciti dagli uffici, chi a caccia di
un taxi, chi diretto verso il proprio veicolo o verso la fermata più vicina
della metropolitana. Anche se il sole non era ancora tramontato i raggi
dorati che penetravano tra i grattacieli, resi visibili dal pulviscolo in
sospensione, erano filtrati dagli strati bassi dell’atmosfera tanto da
risultare innocui. Il penetrante odore di ozono, ossidi di azoto,
idrocarburi incombusti e asfalto surriscaldato riusciva a oltrepassare anche
i filtri nasali che molti indossavano.
La folla che inondava i marciapiedi costituiva un perfetto esempio del moto
di un fluido viscoso, con le sue variazioni di densità e di velocità, con i
suoi vortici. Tra i tanti, uno era causato da Shelly. Pur imbrigliata in un
tailleur dal taglio classico, quasi severo, la sua bellezza non perdeva la
sua forza d’attrazione, calamitando l’attenzione delle persone circostanti.
Anche lei era appena uscita dall’ufficio, una lunga giornata in cui non
aveva combinato niente, i suoi pensieri lontani mille miglia dalle
scartoffie, così come in quel momento era del tutto incurante di quello che
la circondava.
Sempre soprapensiero si inserì in una corrente che veniva inghiottita dalle
scale di una stazione della metropolitana. L’odore del traffico fu
sostituito da quello dell’olio lubrificante, il pavimento tremava a
intervalli regolari per la vibrazione dei treni delle linee che passavano
sopra o sotto, le pareti tappezzate di schermi ultrapiatti a grandezza
naturale che cercavano di infrangere la barriera di indifferenza protettiva
delle persone che aspettavano sulla banchina.
All’arrivo del suo treno Shelly tornò a focalizzare la sua attenzione sul
mondo esterno e si accorse che una ragazza sconosciuta la stava fissando
intensamente.
Shelly trattenne il respiro, finché non si rese conto che quella ragazza non
era altro che il suo viso riflesso sul finestrino del treno.
Non era la prima volta che le succedeva, quel giorno. Non si era
riconosciuta nello specchio appena uscita dalla doccia, la mattina. Non si
era riconosciuta nella foto che una sua amica le aveva mandato con la posta
elettronica. Non si era riconosciuta nell’immagine ripresa da una
videocamera e mostrata su uno schermo nel centro commerciale dove aveva
pranzato.
Salì sul treno, la folla la stringeva da tutti i lati, anche se non si fosse
tenuta al corrimano non avrebbe rischiato di cadere. Il cellulare cominciò a
vibrare nella borsetta. Con qualche contorcimento riuscì ad estrarlo e a
rispondere, all’orecchio le risuonò la voce della segretaria del chirurgo
estetico a cui si era rivolta, che le ricordava la visita di controllo
fissata per il giorno dopo. Shelly ringraziò e chiuse la comunicazione,
tornando a fissare il buio della galleria oltre il finestrino, la sua
fermata passata da un pezzo.

30 settembre 2005

Track 05 - Staring at the Sun

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Il volume del televisore era appena al di sotto della soglia del dolore, ma il vecchio non se ne curava. Una ragazza dai tratti asiatici (in carne ed ossa? Un avatar generato sinteticamente?) enumerava i mirabolanti pregi di chissà cosa, ottenendo scarsi risultati, almeno in quell’appartamento. Il vecchio accendeva il televisore ad un volume così alto esclusivamente per tenere a bada i pensieri (fauci aguzze) che lo assalivano sempre più di frequente.
Il sole non sembrava così pericoloso quel pomeriggio, visto attraverso i cristalli schermanti delle finestre. Se l’appartamento avesse avuto un balcone molto probabilmente si sarebbe affacciato senza precauzioni, fregandosene del rischio di melanomi e danni alla retina.
Invece quel buco non aveva balconi (meno male) perciò il vecchio doveva accontentarsi di starsene seduto a contemplare il secondo dei sette edifici gemelli che costituivano il complesso residenziale. Ricordi di spiagge assolate, di gocce di pioggia sulla pelle, di montagne incappucciate di neve invasero la sua mente come uno sciame di moscerini molesti, nonostante il televisore.
Qualcuno suonò il campanello (appena in tempo) salvando il vecchio dai suoi pensieri.
Zittì il televisore e urlò: “Entra pure, Samy.”
Guardò il ragazzino entrare, con sottobraccio il notebook.
“Non dovresti essere a casa a fare i compiti?” fece finta di rimproverarlo.
Samy gli mostrò il notebook come per giustificarsi e aggiunse: “Di là c’è un signore. Lui e la mamma stanno parlando.”
“Embe’?”
“Niente, sembravano tristi, tutti e due.”
Un’ombra scese sul viso del vecchio (ancora non sa niente) ma il ragazzino non se ne accorse, intento com’era a collegare il notebook alle prese nella parete.
I cattivi pensieri lo invasero di nuovo (se per qualche miracolo la fascia di ozono si rigenerasse Samy avrebbe lo stesso paura del sole; se il ph della pioggia tornasse neutro, Samy cercherebbe comunque di schivare le gocce; se invece dell’autunno mite di adesso tornasse l’inverno rigido Samy si lamenterebbe del freddo).
“Mi fai provare?”
Samy guardò il vecchio, sorpreso. Aveva sempre brontolato quando si era collegato alla Rete in sua presenza. Un po’ titubante gli porse l’i-glove e il visore facendogli vedere come indossarli e come usarli. “Dove vuoi andare?”
(via di qui) “Fammi vedere il tuo sito preferito.”

23 settembre 2005

Track 04 - If God Will Send His Angels

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Un mini appartamento al 12° piano di un complesso residenziale che comincia a mostrare segni di decadimento. Primo pomeriggio. Un sole caldo, fin troppo, entra dalle finestre, creando contrasti tra luce ed ombra. Ahmir, vestito in maniera anonima, e Rita sono seduti uno di fronte all’altra. Un tavolo li separa.
“E così sei venuto.”
“Non avevo molta scelta, mi pare.”
“Saresti potuto scappare, come al solito.”
“Scappare… proprio tu mi accusi di scappare.”
Ahmir si alza, va alla finestra, guarda all’esterno.
Il silenzio si prolunga, disturbato solo dall’audio di un televisore a tutto volume, proveniente dall’appartamento vicino, e dal rumore di un elicottero che sorvola la zona.
“Non vuoi sapere dove sono stata, cosa ho fatto in questi anni?”
Ahmir si volta per guardarla, lei non ricambia lo sguardo.
“Io vorrei sapere perché hai aspettato fino a questo momento per farti viva.”
Lei non risponde. Continua a fissare il tavolo. Ascoltando con attenzione si capisce che il televisore sta trasmettendo una televendita.
Ahmir studia l’ambiente, la tovaglia di plastica sul tavolo, scolorita e piena di tagli, il sofà mezzo sfondato, l’assenza di qualsiasi oggetto decorativo, a parte un piccolo crocifisso appeso al muro.
“Perché non sei venuta con me? Perché ti accontenti di questo…”
Rita solleva bruscamente lo sguardo.
“Proprio non capisci, vero?” Lo guarda intensamente, poi torna a fissare il tavolo. “No, non capisci.” Un pallido sorriso si disegna sul suo volto. “Ma del resto questa tua… ingenuità… è sempre stata il tuo punto di forza.”
Si alza anche lei, va al lavello e si riempie un bicchiere d’acqua.
Si sente il rumore di una chiave che gira nella porta d’ingresso.
“Mamma, sono tornato.”
“Samy, vieni. C’è una persona che devi salutare.”
Un ragazzino sui 13, 14 anni entra nella stanza. Si toglie il polveroso mantello phUV e lo posa sullo schienale della sedia dove prima era seduta Rita.
“Questo è… Johnny,” Ahmir trasale “un mio… vecchio amico.”
Samy stringe la mano irrigidita di Ahmir/Johnny, poi guarda Rita.
“Adesso puoi andare a fare i compiti.”
“OK mamma. Arrivederci Johnny.”
Johnny lo guarda andar via, senza dire niente.
“Oh Rita…” Johnny si siede.
Rita sposta il mantello phUV sul sofà e si siede anche lei. Stringe le mani di Johnny.
“Johnny, tu non sai…” Lacrime scivolano sulla sua faccia.

16 settembre 2005

Track 03 - MOFO

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“Willie, come hai detto che si chiama questo cesso dimenticato da Dio?”
“Gehenna, Ahmir.”
Mai una volta che si ricordasse il nome del posto dove si esibiva.
Gli diedi un’ultima controllata, trucco e vestiti erano a posto. Già dalla faccia gli scompariva quell’espressione annoiata e sprezzante, sostituita dal sorriso che riusciva inevitabilmente a catturare il pubblico.
“Vai, sei perfetto.”
Appena la gente lo riconobbe il silenzio carico di tensione esplose in un grido di giubilo.
Dalla mia posizione privilegiata dietro il palco potevo vedere tutto quello che succedeva, studiare il pubblico, sempre diverso eppure sempre uguale… tre adolescenti sull’orlo dello svenimento, una splendida rossa dallo sguardo smarrito, un uomo molto sexy dalla pelle olivastra, il barista, che stranamente non guardava il palco come il resto della discoteca ma sembrava avere occhi solo per la rossa…
La folla era in delirio, e come darle torto? Ahmir era unico, non avevo mai conosciuto una persona con il suo fascino, il suo carisma e il suo talento. Per un po’ ero stato infatuato di lui, penso fosse inevitabile, poi col tempo avevo cominciato a capire chi si nascondeva dietro il personaggio della popstar, e avevo deciso di lasciare perdere. Non che Ahmir disdegnasse le relazioni omosessuali, ero io che non avevo voglia di legarmi ad un bambino insoddisfatto, e solo. Così, mi ero lasciato doppiamente fregare, mi ero affezionato a lui ed ero diventato il suo babysitter, senza neanche la gratificazione di una bella scopata.
Certo non mi dispiacevano lo stipendio, il continuo viaggiare, la vita frenetica dello showbiz. Ma a volte mi ritrovavo a fantasticare di una vita ‘normale’, in cui Ahmir sarebbe stato semplicemente una star in TV.
Ahmir irruppe nel backstage, la prima parte dello spettacolo era finita. Si deterse il sudore, bevve un po’ di riequilibrante idrosalino, scambiò qualche battuta con i tecnici.
Ma c’era qualcosa che non andava.
Era come se evitasse il mio sguardo.
“Ahmir, dimmi che c’è.”
Sguardo da coniglio in trappola. “Nulla… ora devo tornare sul palco.”
Durante la seconda parte dello show mi lambiccai il cervello cercando di capire cosa potesse turbarlo, ma niente. Continuai a lambiccarmi anche durante la successiva festa nel locale più rinomato della città, finché tornati in albergo decisi di metterlo alle strette.
“Ahmir, deciditi a parlare.”
Di nuovo lo sguardo da coniglio braccato.
“Ahmir…”
“Sai chi ho visto in quella discoteca?”
Lo guardai. Chi diavolo poteva aver visto?
“Ho visto mia sorella.”
“Tua… sorella?!” Dire che rimasi sbalordito è poco. In tanti anni passati ad accompagnarlo da un impegno all’altro, sostenendolo, e a volte consolandolo, l’idea che potesse avere una sorella non mi aveva mai sfiorato neanche l’anticamera del cervello.
“È riuscita a lasciarmi un biglietto in camerino.”
Passeggiava su e giù per la stanza, giocherellando con le mani.
“Mi ha dato un appuntamento. Domani. Nel suo appartamento.”